Le scuole d'Architettura

studentiuniversitari 500di Antonio Quistelli* - A qualcuno che avesse in mente di chiedersi se si può sapere che cosa è l'architettura, per studiare e poi viverci come mestiere, bisogna dare una risposta. Nel mio quadro impietoso, le strutture didattiche figurano, col loro autolesionismo, come istituzioni che non stanno al passo dei tempi, non sapendo conservare i loro statuti profondi. Tuttavia, le esigenze vitali si difendono da sole attraverso meccanismi d'autoriparazione, con compensazioni e trasferimenti di funzioni insopprimibili alle forze reali in circolo nel sistema. Bisogna pensare, innanzi tutto, che nella nostra disciplina e nel mestiere che professiamo, esiste una questione non modificabile: la natura della metodologia fondamentale delle nostre scuole, che non possono adattarsi nel profilo generale ai processi di costruzione di conoscenza con i passaggi propri delle scienze esatte. Questo è il nostro limite e insieme il dato essenziale dell'identità e legittimità dell'architettura. Vi sono studi nei quali la regola è di partire dai modelli matematici e dall'astrazione che li assume come rappresentazione della realtà nei riscontri classici della sfera scientifica: la costanza di misure e d'effetti nella ripetuta applicazione. Per chi percorre questa strada, la realtà e la sua capacità di risposte finite s'identificano, fuori del conto di ciò che non è misurabile, entro la stabilità e l'ordine dei principi. Noi, al contrario, non possiamo che crescere in un canone diverso di formazione. Alle nostre astrazioni e alle generalizzazioni, noi giungiamo ordinando la realtà in un sistema diverso d'informazioni. E' un cammino verso la coscienza che, di solito, non procede da leggi date per risolversi in un controllo del mondo fisico. A ragione, siamo posti sul limite di quell'ambito che è ancora detto umanistico, se con questo s'intende qualcosa che pone la sua centralità nella coscienza, nella costruzione di una responsabilità morale, una volta che si è preteso il privilegio d'assumere la propria soggettività - la propria coscienza collettiva e soggettiva - come riferimento, come metro, come giudice della qualità delle relazioni che impariamo a riconoscere, dalle interazioni che osserviamo. In questo quadro, la matematica è per noi uno strumento quando occorre. Di continuo, per esempio, ci occorre la capacità della geometria di essere un mezzo che garantisce la possibilità di dare una figura alle nostre invenzioni. Non sto descrivendo, per la verità, gli attributi di un demiurgo, ma sto cercando di spiegare alcune sue diversità da altri tecnici. Sto provando a spiegare come siamo, perché facciamo certe cose, anche quelle che non fanno amare alcuni di noi. Nel bene e nel male, queste radici spiegano alcune cose. Spiegano la vitalità reale che ci anima. La non riconducibilità a proposizioni limitate, l'essenza pluralistica, senza la quale le nostre scuole non sarebbero nulla. Un gruppo può egemonizzare una scuola, ma questo vale per le scelte burocratiche e amministrative, ma fuori delle sale dei Consigli e delle Presidenze, ciascuno è libero, isolatamente o in gruppo, di condurre la propria ricerca e di comunicarla, di contrastare i luoghi comuni o le scelte di comodo: e questo vale, in ogni modo, per tutta l'Università. Diversità d'opinioni, posizioni alternative, offerte di diversi sistemi di coerenza muovono la superficie e il profondo vitale della scuola di architettura e nella loro corrente, allora, può accadere che gli studenti trovino modo di crescere. I risultati più felici che non si riescono a produrre con un ordinato concerto, nascono dal contrasto intellettuale che stimola confronti e scelte. Un pensiero consolatorio, una tentazione, è che tutto ciò è il solito paradosso italiano, la nota contraddizione secondo la quale, da noi, può accadere che il Paese sia più affidabile delle sue istituzioni, che gli amministrati siano migliori degli amministratori. E che il fluido riparatore dell'intelligenza trovi adattamenti e soluzioni più rapide delle Istituzioni, lente ad adeguare i loro comportamenti alla società che cambia. C'è chi ha imparato alla vecchia scuola della storia, che volere le cose ha, spesso, un unico modo di essere soddisfatto: farsele, correre quanto si può verso cambiamenti e innovazioni necessarie, cercando modelli ed esempi, anche fuori del proprio intorno. Gli studenti migliori sono spesso quelli che imparano rapidamente questa lezione, quelli capaci di mettere in discussione e sottoporre a verifica critica ciò che è loro offerto. Sono sempre più numerosi quelli che non esitano a percorrere mezzo Paese per andare, di persona, ad ascoltare una voce che li attrae, dall'eco di una lezione. Sono anche quelli che hanno appreso che a valutare la qualità spaziale di una costruzione non è sufficiente un libro, e che traversano, quindi, l'Europa, per misurare sul posto, a confronto con il linguaggio non mediato dell'opera, il senso di un monumento, di un nuovo evento dell'architettura. Sono quelli che hanno imparato a riporre le loro scoperte, il frutto di un pensiero tradotto in immagine, nelle pagine di un libricino che li accompagna e che riempiono d'annotazioni, di mano esperta o di segno incerto, ma sempre testimonianza che si sta compiendo una trasformazione essenziale: aggiungere alla capacità di verbalizzare quell'offerta dalla lingua dell'icona. E' importante, come lo è per un matematico sostituire la dimostrabilità verbale con quella del linguaggio matematico. La tendenza alla mobilità viene anche da programmi di cooperazione europea che l'Università sta imparando a estendere agli studenti, ma il processo spontaneo sta andando oltre la limitata offerta che si è in grado di gestire. Così accade che escano dalle nostre scuole, giovani intelligentemente aggressivi e motivati, per l'intreccio tra la loro capacità di crescita e l'azione di una guida che, alla fine, si trova sempre, se si vuole. Un compagno, un giovane di poco più maturo alle prese con il tentativo di rimanere nella scuola, un docente sul cammino di una sua maturazione ancora da definire, un anziano addetto ai lavori che già pensa a come sarà quando il suo compito sarà finito. Le incertezze e le casualità del processo vengono, in ultima analisi, dal fatto che la guida, se uno la trova, non è là dove dovrebbe essere, ma è da cercare, da scoprire, da incontrare. Non è, dove dovrebbe essere e nemmeno nel posto giusto quando occorrerebbe. Tutti sono al posto fissato dal calendario della scuola. E per questo capita che non tutti abbiano parte nel processo; che non tutti possono essere promossi: portati più avanti nel loro cammino anche come persone. E' questo il dramma. Tuttavia, dell'istituzione università, anche così com'è, per imparare qualcosa, non si può fare a meno. Rimane, salvo eccezioni, lo stampo necessario entro il quale trovare forma. Dopo se ne può fare a meno e continuare la propria ricerca per le vie del mondo. Le spiegazioni di quello che, in parte, è un miracolo, valgono anche per darsi conto d'altre cose. La nostra esperienza dell'architettura non è disprezzata all'esterno del nostro Paese: tutt'altro. Il made in Italy, in architettura, è un valore. Certo, sta anche accadendo che non pochi architetti italiani si siano costruiti opportunità di lavoro fuori del nostro Paese, eppure ciò che costruiamo, per noi, non è esemplare. Siamo in ritardo di tempi che non oso nemmeno quantizzare, spaventato dai conti che mi vengono, in quell'opera di rinnovo delle città che è molto avanti nella comunità alla quale vogliamo appartenere: l'Europa. Dove sono, la maggior parte dei modelli che suscitano interesse verso di noi, se non nel nostro spazio edificato? Sono spesso nei progetti che non è stato dato di realizzare, e il cui unico uso, frequentemente, è di contribuire a costruirci una fama, il cui consumo, spesso, avviene dentro il ristretto mondo degli architetti. Siamo, in questo, come degli attori che recitano per loro stessi, lontani e fuori della vista del pubblico. Siamo, dunque, dinanzi ad un altro segnale del paradosso italiano: quello dello spreco che è la nostra vergogna. A volte corriamo sul filo di una definizione dell'architettura che non è altro che quella che viene dagli oggetti; dalla loro realtà; da quella della città e del territorio, a ogni scala di segno della cultura materiale. Non sto rispolverando il vecchio slogan dalla città al cucchiaio del manifesto moderno, sospetto d'annunciare una meccanica competenza onnicomprensiva che non lascia spazio a specificità distinte nell'universo dell'artificiale. Continuo ad apprendere, e continuo a verificare, che la nostra specificità è lì, nello scoprire - inventare - le regole del gioco, nel renderci conto delle interazioni che collegano in un sistema semantico tutte le cose. E' il momento di finire. Possiamo essere molto bravi. Aver imparato e sapere continuare a farlo, ma che accade alla fine? C'è da scordarsi che tutti quelli che si laureano in architettura faranno gli architetti e, del resto, dovunque, si vanno annullando le antiche garanzie che legavano modi di formazione e attese di lavoro. Gli esperti, raccontano che il lavoro ci sarà, a patto d'avere mobilità professionale, di convertire la propria disponibilità. D'altra parte, essere un professionista libero, oggi significa non più avere un capitale di sapere e offrirlo, ma significa aver denaro da rischiare: e non basta. I modi secondo cui si organizza oggi la committenza sono sempre di più favorevoli alle grandi compagnie di progettazione e servizi che non al singolo. A chi volesse fare l'architetto, però, bisognerebbe chiedere e dire: ebbene, sapete disegnare? Può essere importante: il disegno sarà una lingua che dovrete conoscere. Pensate di saper attingere all'immaginario e insieme praticare la concretezza? E' importante. Siete in grado di dare a voi stessi l'autonomia della vostra soggettività, e servirvene per interpretare la collettività? Le vostre mani sanno fare le cose? Riuscite a vedere gli uomini dietro i segni del mondo materiale e credere che valga la pena di porre voi stessi e le vostre capacità al loro servizio? Forse, se è così, potete anche pensare d'avventurarvi in un mondo che potrà conquistarvi ma non sempre compensarvi.

*Fondatore e primo rettore dell'Università Mediterranea

Nota del direttore

Celebrare la figura di don Lorenzo Milani, non significa celebrare solo un uomo, un sacerdote, a cinquant'anni dalla sua scomparsa. Significa celebrare un metodo formativo ed educativo, che in questi tempi, potrebbe essere una via per guardare al futuro con maggiore ottimismo. Per questo, il percorso pensato dal prof. Isidoro Pennisi sul Dispaccio, si conclude oggi con questo ultimo scritto di Antonio Quistelli, fondatore e primo rettore dell'Università Mediterranea.

Parole messe nero su bianco nel 1996, ma estremamente attuali.

La riflessione di Quistelli rimanda, ancora una volta, a quei valori di cui don Milani si è dedicato nel corso della propria vita. Ma è importante perché si rivolge ai professionisti di domani, alla classe dirigente, alla borghesia, alla fascia di intellettuali, la cui indipendenza e preparazione è fondamentale per (ri)sollevare le sorti dei territori.

Soprattutto del nostro.

Le parole di Quistelli sono attualissime perché se Reggio Calabria e la Calabria sono sprofondate nel baratro in cui si trovano, è anche perché chi – per studi e per solidità economica – avrebbe potuto tirar fuori tutti dalle secche e non lo ha fatto, preferendo invece accompagnarsi (e, purtroppo, talvolta prostituirsi) al potere. Quello di Quistelli, invece, è un invito a scommettere su sé stessi, senza attendere l'assistenza della politica, del potere in generale, per ottenere i risultati. Scommettere sulla propria individualità, ma allo stesso tempo senza perdere il senso di comunità necessario per la crescita di un territorio.

Don Milani e Quistelli sono stati il filo conduttore di questo percorso, iniziato alcune settimane fa, e che si conclude oggi, non solo con questo scritto che vi proponiamo, ma anche con l'incontro di stasera al Malavenda Cafè di Reggio Calabria. Con Isidoro Pennisi e con Francesco Villari discuteremo, a partire dalle 21, proprio sulla figura di don Milani e su quanto i suoi insegnamenti possano essere il grimaldello per scardinare la cappa – in primis culturale – che opprime i luoghi che viviamo.

Claudio Cordova