Per non vergognarci ancora. Chi può, ora provi a fare luce sull’uccisione di Macheda, il vigile integerrimo cugino di Versace che lottava l’abusivismo

machedaimmagineppdi Mario Meliadò - Dalla fine del viale Europa scendiamo giù, prendiamo la via Itria. Poco più sotto della chiesa della "Madonna delle Catene" ci si ferma. Al numero civico 31 ci aspetta un pezzo di Storia calabrese che ha bisogno di essere raccontata ancòra, e ancòra, e ancòra: quella sera d'inverno di 33 anni fa in cui il cuore del vigile urbano Pino Macheda ha smesso di battere. E quello che era successo prima, e che è successo dopo. 

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MACHEDA, DA GIOVANE. «Ci siamo conosciuti nel dicembre del 1983 sopra Gallina, nella casa in cui abitavo con i miei familiari: Pino era entrato nella Polizia municipale nell'81, e mio fratello era suo collega», racconta Domenica Zema, oggi da tempo vigile urbano a sua volta e all'epoca 24enne casalinga. Praticamente un "colpo di fulmine": poco più di sei mesi dopo, il 10 giugno dell'84, Pino e Mimma si sarebbero uniti in matrimonio. «Certo, una volta non usava sposarsi molto avanti con l'età; e va anche detto che, prima del matrimonio, per noi sarebbe stato complicato riuscire a incontrarci o vederci fuori di casa. Ma noi due stavamo particolarmente bene insieme – ricorda la Zema –, lui stesso voleva tanto sposarsi... e ci siamo sposati». Un anno esatto dopo le nozze, da quell'amore meraviglioso quanto inatteso nacque il bimbo della coppia: per una curiosa coincidenza sarebbe nato proprio il 10 giugno del 1985, e per il macabro scherzo giocatogli da vigliacchi assassini non avrebbe mai conosciuto il padre, di cui però emblematicamente ereditò il nome, chiamatosi a sua volta Giuseppe Macheda, quasi a perpetuare la figura di quel papà ucciso quando la sua mamma, al sesto mese di gravidanza, ancòra lo portava in pancia.

LE NOZZE. Forse il solo viaggio "vero" per Mimma e Pino fu il viaggio di nozze, un viaggio organizzato a Palma di Maiorca. «Altri viaggi particolari, hobby? No, anche perché vivevamo di stipendio – fa presente la vedova –. Ma è stato un periodo bellissimo: una lunga luna di miele». E il vigile Macheda, che persona era?, che marito era? «Una persona molto tranquilla. Suo padre era falegname, la madre casalinga; ma veniva da una famiglia dai valori solidi. Tra i parenti, aveva una nonna che stava in casa con loro, uno zio che viveva in Germania e un cugino, Pasquale Macheda, poi molto noto in città per la realizzazione e gestione del Cordon Bleu. Ma c'era anche un secondo cugino per parte di padre che presto avrebbe fatto strada, lontano da Reggio Calabria: si chiamava Gianni Versace... E noi due conducevamo una vita davvero tranquillissima – precisa lei –: famiglia, uscite... la classica vita familiare. E l'idea del bambino in arrivo lo faceva impazzire».

Se c'è un rimpianto per Mimma Zema, è che quel tempo è stato troppo poco ed è, felicemente, trascorso troppo in fretta: «Davvero troppo, troppo poco tempo insieme. Pensi che non ho neppure una foto di Pino del periodo in cui eravamo fidanzati: neanche una. E il classico Super8, il filmino che allora si faceva del viaggio di nozze, visto che il fotografo di turno ci metteva sempre dei mesi a consegnarlo, non abbiamo fatto neanche in tempo a vederlo una volta».

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LA TASK FORCE. A Reggio Calabria, nei primi anni di servizio, Giuseppe Macheda svolgeva funzioni relativi a traffico e viabilità in sella a una motocicletta. Nell'inverno a cavallo tra il 1984 e il 1985, però, il pretore Angelo Giorgianni – magistrato polistenese che poi conoscerà i fasti del governo Prodi, ma anche l'onta del "verminaio Messina" – decide di costituire una snella task force antiabusivismo.

Basta guardarsi in giro: architettonicamente e dal punto di vista edilizio Reggio è palesemente la "città delle incompiute", degli enormi stabili dai colori ora smunti ora sgargianti, dalle altezze e dagli ingombri tutt'altro che armonizzati tra loro, spesso come sventrati perché solo abbozzati e poi non finiti oppure portati a termine in soli mattoni e completamente privi della facciata. Giorgianni pensa d'intensificare il contrasto a questo scempio mettendo in piedi un gruppo interforze e chiama a lavorare con lui dieci uomini, guidati da un maresciallo dei Carabinieri; per la maggior parte, però, si tratta proprio di vigili urbani, tra i quali lo stesso Macheda. «Pur essendo un agente di Polizia municipale, Pino – racconta Domenica Zema – era l'unico componente di questo gruppo di lavoro interforze a non avere un'arma: in quel periodo, i vigili non ne venivano muniti». E in effetti ancor oggi la questione per le Polizie locali non trova una soluzione unica: in alcune città i vigili urbani girano armati di pistola, in altre sono muniti solo di sfollagente, "distanziatore" o – negli ultimi tempi – spray al peperoncino; in altre ancòra , l'arma da fuoco è facoltativa.

Pino Macheda, a 29 anni, ha comunque già una buona esperienza alle spalle ed è incaricato specificamente di "ripulire" la zona Sud della città rilevando e contrastando ogni genere d'abuso edilizio. Un po' per la sua venerazione per la legalità, un po' perché è uno che "ci crede" davvero, nel giro di un semestre appena il vigile denuncia una cinquantina di persone, soprattutto per aver costruito in zone non consentite. Parecchi cantieri vengono fermati; diversi palazzi sono sottoposti a sequestro; e scattano le manette ai polsi di vari imprenditori edili.

Basterebbe molto molto meno, nella "capitale della 'ndrangheta", per finire nella black list. Ma lui, i colleghi, il pretore non sanno quanto possa essere pericoloso il pavimento ardente su cui si sono incamminati, o forse non fanno in tempo a capirlo fino in fondo. O forse, lo capiscono eccome, ma pensano che il bene comune e il ripristino della legalità in uno dei settori più potentemente e visibilmente violentati a Reggio Calabria sia – semplicemente – la cosa giusta da fare.

«In famiglia? Io no, non avevo assolutamente la sensazione che Pino fosse in pericolo, forse anche perché lui sapendomi in gravidanza cercava di tutelarmi da ogni sbalzo emotivo – ammette Domenica Zema –. Solo negli ultimi due o tre giorni che precedettero l'omicidio ho percepito qualcosa di strano, di negativo: intanto perché per circa 48 ore non si rase la barba, arrivò anche qualche telefonata "muta", con l'interlocutore all'altro capo dell'apparecchio che non disse una parola. E poi, certo, perché nella notte tra il 27 e il 28 febbraio del 1985 fu data alle fiamme l'auto di servizio del suo collega Ferdinando Parpiglia». Un incendio che, evidentemente, gli ignoti mandanti del delitto Macheda avevano inteso come "ultimo avvertimento" prima di scegliere di "salire di livello" a stretto giro di posta.

IL DELITTO. Giusto il giorno dopo il rogo della vettura del collega, giovedì 28 febbraio dell'85, Macheda viene chiamato d'urgenza a prendere parte a una riunione pomeridiana indetta dal comandante della Polizia municipale del tempo, Salvatore Minniti, insieme agli altri vigili urbani che fanno parte della task force abusivismo. L'incontro dura per ore, non è difficile immaginare che a parte dettagli operativi si sia discusso anche e soprattutto del brutale episodio che aveva appena preceduto l'incontro e delle sue possibili implicazioni future. Diversamente da quanto si può tuttora leggere in vari volumi e numerosissimi scritti giornalistici, non fu invece data alle fiamme alcuna auto di Macheda: né propria, né "di servizio". Forse un misunderstanding, nella conversazione tra qualche investigatore e uno dei cronisti più solerti dell'epoca; chissà.

Termina la riunione, Pino Macheda si dirige in auto verso casa. «Minuto più, minuto meno, erano le 20,45», riferisce la vedova. L'agente di Polizia municipale non sa che il killer lo sta aspettando, e con ogni probabilità già nei giorni precedenti lo aveva atteso per misurare i suoi passi, studiarne gli orari d'uscita e di rientro (che, pure, quella sera erano ben diversi rispetto al solito), carpirne le abitudini.

Proprio per questo, il sicario invece sa perfettamente che Macheda, per posteggiare la sua auto, dovrà aprire il cancello del parcheggio interno. Anzi, probabilmente sa anche che il suo bersaglio dovrà fermarsi, per un minuto potenzialmente preziosissimo per lo sgherro che ce l'ha nel mirino, in quanto non usa portare con sé le chiavi di quel cancello.

Va esattamente così. Il vigile urbano si ferma col suo veicolo all'altezza del cancello, suona al citofono e con voce un po' provata dalla lunga riunione chiede alla moglie di lanciargli direttamente le chiavi dal balcone del loro appartamento al terzo piano, senza perder tempo a portargliele giù o a metterle in ascensore. Mimma Zema si appresta a fare senz'altro così, poi dalla porta di casa già spalancata per accogliere il marito incrocia sul pianerottolo la vicina di casa, a sua volta con la porta di casa aperta: in ascensore c'è il marito di quest'ultima, che a sua volta sta rincasando proprio in quel momento.

....Sono gli stessi attimi in cui Pino Macheda s'è scostato dal citofono per raccogliere le chiavi e poi rientrare nell'abitacolo per parcheggiare: non lo farà, perché il suo carnefice non gli lascerà neppure il tempo di voltarsi. Un colpo. Un secondo colpo. Il killer, verosimilmente posizionato dall'altro lato della strada, gli spara alle spalle: due fucilate alla testa non lasciano scampo all'agente di Polizia municipale.

Domenica, la moglie, sente quelle esplosioni mentre è coi vicini e vuol sùbito scendere a soccorrere il marito, ma il vicino di casa amorevolmente glielo impedisce, per evitare che – a maggior ragione, al sesto mese di gravidanza – possa correre rischi o, comunque, vedere qualcosa che può causarle uno shock. Ed è sempre lui, il vicino, a scendere sùbito giù e a lanciare l'allarme: chiama i Vigili del fuoco («Allora era così, avevano l'ambulanza», conferma la Zema) che arrivano in un lampo, anche perché il Comando è vicinissimo e con l'ambulanza di servizio trasportano immediatamente Macheda agli Ospedali Riuniti, dove l'uomo però arriva cadavere.

«Non erano neanche le 9 di sera», è il ricordo della vedova Macheda (a fronte di molte cronache del tempo che parlano di un delitto consumatosi dopo la mezzanotte); a quell'ora, in una città che sfiora i 200mila abitanti c'è un discreto traffico, in quella che – anche nel 1985 – non è certo una strada di periferia. A un metro, c'è persino una botteguccia che a quell'ora è ancòra aperta.

Ma nessuno ha visto. Per la precisione, nessuno ha neanche notato movimenti strani, anche se un killer con una lupara difficilmente può passare inosservato visto che non ci sono siepi, non ci sono montagne, non siamo nel deserto. E per la verità nessuno ha neanche sentito i due colpi che squarciano l'ancòra lieve non-luce della sera. E forse nessuno ha sentito neppure le urla di quella donna sposata solo pochi mesi prima, che straziano la sera che è e poi ancòra la notte che viene.

ANNI SUCCESSIVI. Dopo l'uccisione di Giuseppe Macheda, il vicinato si prodiga nei confronti dei congiunti, ma la città in quanto tale sembra freddina. Diversamente, la politica e il Corpo di Polizia municipale si ribellano fin dall'inizio, con la dura condanna dell'accaduto da parte dell'allora sindaco psi Giovanni Palamara, il Consiglio comunale che s'interroga con toni pieni di sdegno e di sconforto, i vigili urbani che sfilano in un silenzioso corteo per le strade della città.

In realtà, il tempo del terrore folle e del sangue quotidiano – già vissuto nel quadriennio 1974/77 con la "prima guerra di mafia" – era appena ricominciato: tra il 1985 e il 1991, sull'asfalto di Reggio Calabria rimasero 700 vittime nel corso di quella che venne definita la "seconda guerra di mafia".

Diversi anni dopo, Mimma Zema sarà assunta come vigile urbano per poter provvedere al sostentamento suo e di suo figlio. «Nel frattempo, però, non era successo proprio nulla, neanche in termini di memoria collettiva; al punto che diversi tra i vigili urbani assunti negli ultimi tempi neppure erano conoscenza di chi fosse stato Pino Macheda... Con l'inserimento del suo nome nel Monumento ai Caduti di Palmi, pochi anni fa, ha effettivamente avuto inizio una stagione di maggior consapevolezza».

IL PROCESSO. Tra le cose più rilevanti accadute negli anni successivi, c'è sicuramente il fascicolo aperto per la morte violenta di Giuseppe Macheda. Gli investigatori scavano a fondo nella vita della vittima, ma l'unico spunto davvero interessante che trovano consiste proprio nella sua attività professionale: l'intera zona Sud di Reggio Calabria, rispetto alla quale il vigile aveva specifica competenza in seno alla task force Giorgianni, sta crescendo vorticosamente, in modo sgangherato, senza criterio. E a molti non piace l'idea di vedersi delimitare davvero il raggio d'azione, di perdere quell'aurea deregulation di fatto che è poi il nerbo delle metastasi edilizie di Reggio, che contribuiranno al pressing per una sanatoria generalizzata e produrranno poi le celeberrime 28mila domande di condono edilizio – anche a fronte di scempi inguardabili –, peraltro rimaste inevase per lunghissimi anni.

Una "dritta" porta la Polizia di Stato sulle tracce di Carmelo Ficara, costruttore che nella zona Sud e in particolare a Modena, a Ciccarello, a Bocale con le famose "super-villette" – al tempo, lontane dall'essere completate – sta mettendo in piedi decine di fabbricati a 6 e a 7 piani, condomìni interi, residence. Secondo gli investigatori, è lui il mandante di quell'omicidio: nulla di personale rispetto a Macheda, la loro analisi all'epoca li porta a ritenere che l'importante imprenditore edile con quel delitto volesse dare un netto "segnale" a tutti, in modo da alleggerire la pressione asfissiante del nuovo organismo antiabusivismo sugli alfieri di quegli "estrogeni al mattone" con cui il tessuto urbano sta lievitando.

Così, all'inizio del mese di ottobre dell'87, partono i mandati di cattura nei confronti di Ficara (allora 31enne, con piccoli precedenti penali proprio per abusivismo edilizio) in qualità di mandante, del coetaneo e cognato Filippo Faccì (Ficara ne ha sposato la sorella) e del 28enne Roberto Barreca, considerati "gli organizzatori" del fatto di sangue, mentre resterebbe da identificare il killer. Un ruolo-chiave lo assume una donna, Maria Cozzupoli. Lei è la madre di Natale Polimeni, killer storico delle 'ndrine di Archi, prima rimasto paralizzato in un agguato e successivamente ucciso il primo marzo proprio del 1987: una volta morto Polimeni, la Cozzupoli ammette le responsabilità del figlio ma rivela anche che il ragazzo le aveva confidato, peraltro scrivendolo su un foglio, d'aver rifiutato di uccidere l'agente di Polizia municipale Giuseppe Macheda benché proprio Carmelo Ficara gli avesse commissionato il delitto.

Faccì viene arrestato in mare, mentre è a bordo di una nave-traghetto: per ironia della sorte, stava andando in Sicilia per il suo matrimonio. Per Barreca le manette scattano alla stazione ferroviaria di Milano, dove presta servizio. Ma l'imprenditore edile pensa bene di darsi alla macchia, in attesa che la Giustizia faccia il suo corso: i fatti, in qualche modo, gli danno ragione. Una prima volta perché la sua latitanza evita a Ficara di sentirsi schiacciare dal peso infinito di un ergastolo inflittogli in primo grado di giudizio; una seconda volta perché, nel '90, la Corte d'appello di Reggio Calabria proscioglie definitivamente da ogni accusa il costruttore e gli altri presunti protagonisti del fatto di sangue (in verità già assolti in primo grado di giudizio).

«Il vigile s'è ammazzato da solo, come no!», poi commenterà acido qualche investigatore. Restano due circostanze inoppugnabili: la Giustizia s'è pronunciata con sentenza irrevocabile e, a più di tre decenni dai fatti, nessuno ha pagato per il sangue di Pino Macheda.

FICARA, NEWS & FLASHBACK. Il delitto di via Madonna dell'Itria e la stessa vicenda personale di Carmelo Ficara, però, tornano di strettissima attualità per via del recentissimo arresto dello stesso Ficara e di altri tre imprenditori nel contesto dell'operazione "Monopoli". Il decreto di fermo lo descrive come un indiscusso dominus del comparto edile a Reggio Calabria, ben protetto dapprima dai Caridi-Borghetto-Zindato (e dunque, in definitiva dalla cosca Libri che queste consorterie mafiose "coordina") e poi dai De Stefano-Tegano, definendo meticolosamente la potenzialità criminosa del costruttore, che lo collocherebbe saldamente tra gli imprenditori collusi con la criminalità organizzata, epperò «capaci di creare con la 'ndrangheta accordi limitati nel tempo e definiti nei contenuti, negoziando caso per caso». Trattando "da pari a pari" coi capibastone a dispetto delle richieste di "pizzo" e delle intimidazioni subite; intrattenendo rapporti significativi con ambienti politici cittadini; perfino lucrando sul sistema criminale e sui taglieggiamenti imposti ai danni di altre importanti imprese appaltatrici.

I nuovi guai giudiziari di Carmelo Ficara e il suo arresto potranno in qualche modo propiziare un contributo di Verità su un delitto e su un periodo terribilmente oscuri della storia di Reggio Calabria?

LA BATTAGLIA PER LA MEMORIA. A gettare il sasso nello stagno sono l'associazione Da Sud con la sua Lunga marcia per la memoria e due giornalisti e scrittori reggini, Danilo Chirico e Alessio Magro, nel loro formidabile volume Dimenticati (edito da Castelvecchi nel 2010, l'anno successivo frutterà loro il premio "Indro Montanelli", nel 2011 alla sua quinta edizione), incentrato giustappunto sull'esigenza di far rivivere la memoria delle vittime innocenti, quasi obliata dalla polvere degli anni.

L'associazione antimafia Libera, fondata da don Luigi Ciotti, su forte stimolo dell'allora responsabile territoriale Francesco Spanò si lancia poi in una battaglia in grande stile: Il ricordo lascia il segno è il titolo attribuito alla campagna che si snoda tra il 2013 e il 2014, attraverso la quale tanti cittadini, membri d'associazioni varie, esponenti della società civile si fotografano con una targa di cartone alla memoria di Pino Macheda e di Giuseppe Marino (ucciso 8 anni dopo il collega), chiedendo con forza che venga loro intestata la nuova caserma della Polizia municipale lungo viale Aldo Moro. Il 17 aprile del 2014, del resto, la stessa Carovana nazionale antimafia, su input anche del vicepresidente nazionale di Avviso pubblico – il sindaco di Condofuri e oggi anche consigliere metropolitano Salvatore Mafrici, già protagonista di un impegno forte proprio all'interno di Libera – fa tappa a Reggio Calabria, alla sede di Condera della cooperativa "Rom '95", con l'iniziativa Le mani sulla città – Impronte di cittadinanza negata, che puntava su un intenso ricordo delle figure dell'ingegnere Demetrio Quattrone e dello stesso Macheda, «che proprio per la lotta all'abusivismo e alla corruzione pagarono con la vita».

Il 16 luglio del 2014, sempre su iniziativa di Libera viene piantumato un albero d'alloro in piazza Castello, a ricordare la vita e l'estremo sacrificio di Macheda e Marino. Finalmente, il 16 ottobre dello stesso anno, la nuova "casa" dei vigili urbani di viale Aldo Moro viene effettivamente intitolata alla memoria degli stessi Pino Macheda e Giuseppe Marino.

Ma ancòra lo scorso 25 maggio, l'allora deputata di Alternativa Popolare e componente della Commissione parlamentare Antimafia Rosanna Scopelliti evidenziava: «Continua a fare fatica, questa città, a ricordare i servitori dello Stato caduti per lei». Accanto al nome di suo padre, l'ex sostituto procuratore generale della Cassazione Nino Scopelliti, altri nomi resi indelebili col sangue, incluso quello di Giuseppe Macheda.

UN APPELLO. Vogliamo chiudere queste righe con una considerazione: una vita è stata stroncata, quella sera di febbraio dell'85, ma al contempo un eroe civile col suo sacrificio ci ha consentito di vergognarci un pochino meno della nostra omertà, della nostra ignavia, della nostra abulia come collettività cittadina rispetto alla criminalità organizzata che troppo spesso fa sì che molti di noi si ritrovino in mano la busta col "pizzo" da pagare agli sgarristi di turno, che molti di noi se sentono un colpo d'arma da fuoco piuttosto che prestare soccorso o chiamare le forze dell'ordine preferiscano girarsi dall'altra parte.

È successo. Anche quando Pino Macheda è stato assassinato, è successo.

Adesso è il momento di vergognarci un pochino di più dell'omertà e dell'inerzia di questi anni: chi è ancòra vivo e sa, provi a tirar fuori la verità su quel delitto, chi può non rinunci a esplorare e se possibile riapra le indagini per fare luce su una ferita sulla quale ogni intimidazione, ogni rivoltellata di 'ndrangheta è sale che brucia.